Ho solo dieci dita e, gli occhi nei quali vorrei ficcarli, sono troppi. Sono gli occhi di tutti quelli che condividono il “pensiero unico”: buonisti, animalisti, arcobalenisti, sardine, ecologisti della domenica, pacifisti a senso unico. Molti sembrano normali, altri girano con la kefiah. Insomma, avete capito di chi parlo. Quelli là.
Tra questi, ci sono i difensori del cosiddetto lupo, ma anche dei lupoidi, degli ibridi, dei mezzi cani che vanno girando per l’Italia e ai quali è stata attribuita la etichetta di “lupo italico”. Quanti sono i lupi in Italia? Secondo i dati forniti dai cosiddetti “lupisti” di carriera, al massimo 2500. Secondo i dati di chi non ha interessi in commedia, molto più del doppio. Prendiamo il Piemonte. Fonti ufficiali dicono che sono 195. Mi pare poco, per le devastazioni che fanno negli alpeggi a danno degli allevamenti. Facciamo due conti. Da gennaio di quest’anno fino ad oggi stati raccolti 16 lupi vittime di investimenti, e quasi tutti su autostrade. Di caprioli, invece, poche unità. Ora, secondo gli ultimi censimenti, i caprioli in Piemonte sono quasi 200 mila. Non voglio paragonare i due dati (perché al contrario dei caprioli probabilmente i lupi avranno le loro ottime ragioni per finire sotto una macchina) ma certo una popolazione di 195 lupi non può lasciare più del suo 8 per cento sull’asfalto. Il fatto è che in Piemonte, come in tutta Italia, i lupi sono molti di più di quanto non ammettano gli esperti, devoti al pensiero unico. Tutto ci dice che dobbiamo gestire anche il lupo, dove “gestire” vuole dire “sfoltire le popolazioni”. Ha cominciato la Francia, con 540 lupi solo nella regione delle Alpi Marittime. La Svizzera e l’Austria, quando serve. Svezia e Norvegia lo fanno da tempo, per non parlare dei Paesi balcanici dove si fa da sempre. Nella Federazione Russa, i lupi sono cento mila e ne vengono abbattuti diecimila l‘anno. Un paio d’anni fa, il grido di dolore proveniente dagli allevatori, da zoologi e scienziati, dalle associazioni venatorie e da due sole associazioni ambientalistiche, Wilderness e URCA, raggiunse l’allora Ministro dell’Ambiente. Fu nominata una commissione di esperti che in breve espresse il verdetto: il lupo va gestito. Quanti? Ecco il problema. Nel balletto delle cifre, siamo ancora fermi. Nessuno li censisce, perché a nessuno è stato affidato l’incarico.
Ma chi è il lupo? Dalla mia più tenera infanzia, il lupo ha popolato il buio delle mie notti. La mia balia Ersilia, che fu disintegrata da una bomba alleata durante la battaglia di Montecassino, mi raccontava di come le notti d’inverno il lupo scendesse insieme alle raffiche di nevischio dalle montagne, e grattasse alla porta delle case di Ferentino. Le pecore vivevano in casa, al piano di sotto, e fornivano calore alla famiglia in cambio di protezione. E il lupo ululava la sua fame.
Il lupo era la paura. Poi a scuola diventò mito, la lupa fu madre di Roma, emblema di forza e ardimento e fino a ieri si aggirava in una gabbia sotto il Campidoglio. Fui figlio della Lupa e poi romanista. “So’ finiti i tempi cupi, forza Roma forza Lupi!” è un grido che mi accompagna ancora oggi. Quando ebbi un figlio, lo chiamai Fabrizio Paolo Lupo. Questo per dirvi che non ce l’ho col lupo anche se, da cacciatore, l’ho sempre considerato un antagonista.
Fino agli anni ’70, una moderata popolazione di lupo italico, sottospecie più piccola del lupo europeo, viveva in Appennino, tra la Sila e il Casentino, ma soprattutto in Abruzzo e Molise. Allora non esistevano gli ungulati che oggi popolano l’Italia e il lupo si doveva accontentare di piccoli animali o rischiare la vita attaccando le greggi, sorvegliate dai feroci cani abruzzesi e dai pastori disposti a tutto. In Abruzzo esisteva ancora la figura del” luparo”, cacciatore specializzato nell’uccidere i lupi. Quando gli andava bene. caricava la spoglia su un carretto e faceva il giro dei paesi ricevendo caciotte, provole, agnelli, soldi, polvere da sparo. Era il suo lavoro. Ho fatto in tempo a conoscerne uno e ad accompagnarlo a caccia. Era l’inverno del ’51 e la piana di Magliano dei Marsi, ai piedi del Velino, era innevata. Ci sistemammo in una buca. Avevo una doppietta Beretta 12 a cani esterni, caricata a pallettoni. Il luparo (si chiamava Panfilo) aveva uno schioppo ad avancarica, a un colpo. Tiro utile, venti metri. C’era la luna e ci si vedeva benissimo. Il luparo cominciò a ululare. Mi spiegò che qualche lupo avrebbe risposto. Poi si trattava di farlo avvicinare, ma il richiamo doveva avere il sapore della sfida. Staremo a vedere. Dopo mezz’ora che eravamo lì, un lupo rispose. Non lontano, tre quattrocento metri. Il luparo cambiò tono: ora lo sfidava. Ci volle un’ora perché il lupo disegnasse la sua sagoma sulla neve illuminata dalla luna. Lo avevamo a una cinquantina di metri. Mi sembrava di sentirne l’odore di cane bagnato. Ci prese a vento. Prima che balzasse via, gli avventurai un colpo. Troppo lontano! I pallettoni potevano essere efficaci al massimo a una ventina di metri. Ma avevo sparato a un lupo! La prima e l’ultima volta della mia vita.
In quegli anni il lupo italico era a rischio. Furono messe in campo provvidenze, furono spesi milioni per la ricerca affidata a studiosi, volontari, associazioni. Nacquero gli specialisti del wolf howling, eredi moderni dei nostri lupari. Il lupo divenne specie protetta. Non ho idea di quanto sia stato speso. Ricercatori, libri, convegni, documentari, corsi, borse di studio. Per anni, c’era gente che lavorava e non se ne sapeva niente. Poi finalmente, la grande notizia:” successo del lupo appenninico. La sottospecie italica ha colonizzato la Liguria e il Piemonte.” Come a dire che i tanti soldi non erano stati spesi invano. Non solo il lupo era salvo ma aveva addirittura colonizzato due regioni lontane. Strano che le ultime tracce del lupo erano state trovate in provincia della Spezia. Le successive, tra le province di Savona e Imperia. E come ci era arrivato? I lupi non volano e nemmeno prendono il treno. Si seppe poi che da un recinto nel Mercantour, nelle Alpi Marittime francesi, era partito un grosso branco di lupi di diversa origine. Dopo essersi fermati in Francia, moltiplicandosi e creando non pochi danni agli allevatori, avevano passato il confine. Naturalmente, gli ambientalisti di casa nostra negarono a gran voce e non ci fu modo di far loro intendere ragione. Sfido: la verità avrebbe sminuito i loro meriti anche se l’operazione aveva comunque garantito il successo della specie italica: dalla Sila alla provincia della Spezia, in Casentino, nell’ appenino emiliano- romagnolo il lupo c’era e godeva buona salute. Che bisogno c’era di tirare in ballo le orde che dalle Alpi Marittime, grazie alla ricchezza degli alpeggi, si erano diffuse alle Alpi Occidentali fino in Svizzera e Trentino-Alto Adige? In più, mentre il lupo italico riesce ancora a mantenere la sua purezza genetica, quelli provenienti dalla Francia si sono ibridati fra di loto e con le migliaia di cani rinselvatichiti.
Purtroppo, ho la certezza che di recinti per lupi ce ne siano anche in Italia. Lì vengono ospitati i trovatelli, gli orfani, quelli rinvenuti dopo un incidente. Mangiano dalla mano dell’uomo e quando vanno in calore prima o poi si accoppiano. Qui la certezza diventa sospetto: non è che qualche anima buona decida poi di liberarli perché il recinto si è fatto troppo stretto? È il loro comportamento a darmi da pensare: non temono l’uomo. Sono molti confidenti. Piuttosto che andare a caccia, preferiscono dedicarsi al bestiame domestico e anche a quello da cortile. Ne fanno le spese galline e oche, gatti e anche cani, spesso di pregio come quelli da caccia. Più di una volta, aspettando il capriolo, li ho visti scendere al piccolo trotto dal calatoio.
La paura degli ambientalisti veri è che i lupoidi si ibridino con il nostro prezioso unico lupo appenninico al quale tutti teniamo tanto e che ne inquinino il suo patrimonio genetico. E allora so’ cavoli amari.
Bruno Modugno