Tratto da La Riserva di Caccia n° 1 Gennaio/Febbraio 1974 : 4-7 di Fulco Pratesi.
Uno dei segni più vistosi dell’incoltura (se non ignoranza) ecologica che circonda l’ambiente della caccia è quello che riguarda i ripopolamenti. E’ proprio in questo campo che il pressapochismo e la superficialità dei cosiddetti “tecnici” della caccia causano i danni peggiori, facciamo venia dei ripopolamenti attuati con procedimenti da paleolitico inferiore (starne di collina “lanciate” in pianura, fagiani liberati al mattino co n un folto pubblico di persone vocianti, lepri “scassettate” ed inseguite da berci e sassate, e così via); non parliamo, per carità di patria, dei poveri pollastroni di batteria con la coda ridotta ad un moncherino e le teste sanguinolente liberati mezz’ora prima dell’arrivo del cacciatore pagante o di quei fagiani la cui massima aspirazione sembra essere quella di voler rientrare nella accogliente voliera dalla quale furono estromessi e attorno alla cui rete continuano a pedinare; sono tutti problemi che non dovrebbero toccare un riservista serio. Trattiamo invece delle specie, esotiche e non, utilizzate in questi ultimi decenni per rinsanguare il nostro anemico patrimonio faunistico. E, naturalmente, dei loro inconvenienti e delle loro possibilità.
Come sempre accade all’ “italo ingegno dalla molte vite”, non ci si accontenta mai, nel nostro paese, di quello che “ passa il convento”. Gli animali, cioè, che la fauna autoctona annovera (e non c’è dubbio che sia una delle faune più ricche d’Europa, almeno nel campo della selvaggina), sono quasi sempre disprezzati a favore di quelli che provengono da altri paesi. Non diversamente da quanto fanno i forestali (che piuttosto che di rimboschire a faggio o a roverella si farebbero tagliare una mano, preferendo sempre i pini neri d’Austria, le pseudostsughe canadesi, le robinie e gli eucalitti) gli esperti venatori si arrabattano a voler trovare sempre nuove specie che, di anno in anno, dichiarano essere i toccasana per i ripopolamenti. Non esistono confini, nemmeno geografici, alla fantasia dei nostri ripopolatori: le pernici dei bambù o bambusicola dalla cina, i colini dalla Virginia e dalla California, i francolini dall’Etiopia, i tacchini selvatici dal nord America, le faraone dal Kenya e dalla Somalia, la martinetta dall’Argentina, il cottontail (minilepre o silvilago ndr) e il jack rabbit dall’America, i mufloni dalla Sardegna, le chukar dall’Asia, e così via, in una fantasmagoria di provenienze che mette paura. Naturalmente tutti o quasi questi tentativi non approdano a nulla; gli equilibri ecologici derivati da migliaia di anni di selezione naturale non accettano tali immissioni cervellotiche ed il rigetto avviene a breve scadenza non senza aver però inferto gravi danno agli ambienti preesistenti.
A questo punto sento già l’obbiezione: “ma che ne dice del fagiano, specie esotica, che pure occupa oggi un posto di primaria importanza nella fauna italiana?”. La risposta è facile. Innanzitutto bisogna vedere se realmente il fagiano è una specie esotica. Secondo Arrigoni degli Oddi questo gallinaceo fu introdotto in Italia verso il XIII secolo avanti Cristo, e si diffuse in seguito in tutta Europa. Ma recenti ricerche paleontologiche hanno dimostrato senza ombra di dubbi che il fagiano viveva nel sud-ovest della Francia fin dal paleolitico (molto prima cioè di una eventuale introduzione da parte dei greci o dei romani); d’altra parte il fagiano allo stato selvatico visse fino al 1700 in tutta Italia fino alle soglie del 1900 in Calabria, in Corsica e sul Monte Argentario, in Maremma. In secondo luogo, pur se si esclude l’indigenato (almeno nella specie Phasianus colchicus ), l’ambiente di provenienza (la Trans-caucasia) è talmente affine al nostro da non potersi parlare realmente di specie esotica, come accade per la pernice dei bambù o per la gallina faraona. Va infine detto che, in tutti i casi, non è sicuro che il fagiano potrebbe sopravvivere allo stato libero senza le continue immissioni e che esso non provochi inconvenienti, come ad esempio quello di esercitare una certa opera di competizione nei confronti ad esempio, della starna.
Ma se il fagiano può suscitare qualche dubbio, esistono molte specie animali appartenenti alla nostra fauna (o che sono state in periodo storico estinte) che potrebbero utilmente essere esaminate per eventuali ripopolamenti. Possiamo, tra le altre, citare tre uccelli: il francolino (Francolinus francolinus) (ne abbiamo parlato qui: https://lariservadicaccia.com/2019/05/28/il-francolino-degli-italiani-una-storia-che-merita-di-essere-raccontata/) la quaglia tridattila (Turnix sylvatica) e la gallina prataiola (Otis tetrax) (ne abbiamo perlato qui: https://lariservadicaccia.com/2019/07/14/la-provincia-delle-otarde-che-non-ce-piu/). Per il francolino, specie estinta verso la fine del secolo in Sicilia ( in Italia peninsulare qualche decennio prima), gli esperimenti interessantissimi del prof. Ugo Baldacci nella sua riserva di Miemo sono così noti che non vale la pena parlarne. Per la quaglia tridattila conviene invece spendere qualche parola.
Questo uccello, distrutto anche lui da una caccia dissennata alla fine del secolo scorso, ha dimensioni simili a quelle della quaglia, dalla quale differisce, oltre che per il piumaggio, per il fatto di essere un uccello stanziale. Il suo ambiente è quello arido e cespuglioso: non a caso vive ancora nel sud della Spagna e nel nord Africa, e, in Italia, le zone ove più resistette alla distruzione, furono le plaghe aride a palma nana e serracchio che vanno da Capo San Vito a Capo Passero, sulla costa occidentale sicula. “Sin dal principio dell’autunno comincia a sentirsi la voce di questa piccola quaglia, che si nasconde tra i cespugli. Io credo che sia specie stazionaria. Pare però che da qualche anno non si riscontri più tanto di frequente come prima”, così si legge sul “Naturalista siciliano” del 1890. “Potrebbe cacciarsi sportivamente col cane da ferma come la Quaglia” afferma Augusto Toschi in Avifauna Italian. “Le sue carni sono molto saporite” dichiara l’Arrogoni.
Ai nostri tecnici che si affannano dietro alle più bislacche introduzioni con la quaglia giapponese o addirittura l’arcianello, sottoponiamo questo oggetto di riflessione: la reintroduzione, con esemplari spagnoli o nordafricani, della quaglia tridattila nelle nostre aree più aride e sterili. Come ad esempio in Sicilia, ove ancora esistono ambienti estremamente adatti a questo interessante uccello. Ma dubito che i cacciatori siculi, che stanno provvedendo a distruggere la meravigliosa coturnice di Withacker, siano all’altezza del compito: meglio sarebbe che il Laboratorio di Zoologia applicata alla caccia di Bologna creasse un area campione di studio sul litorale siciliano.
La terza specie, la gallina prataiola, ha molte più possibilità di riuscita, non fosse altro perché, se pure rarissima, vive ancora nel nostro paese, in Sardegna e in Puglia. Era comune fino ai primi dell’800 anche in Molise e nella Campagna Romana, tanto che, ancora nel 1600, i registri della Gabellla di Piazza della Rotonda (ove sorge il Pantheon) indicano i dazi da pagare, tra l’altra selvaggina, anche per le “galline prataiole”, che dovevano essere abbondanti nelle pianure e nei coltivi dell’Agro Romano.
Un grande uccello, delle dimensioni su per giù di un germano reale, i cui habitat sono le steppe, i pascoli aridi, le garighe a cisto: ambienti così ce n’è a centinaia di migliaia di ettari in Sardegna, in Puglia e in Sicilia (dove non nidifica più da circa dieci anni). Un uccello come questo, che produce da 3 a 5 uova, che non rifugge dalle monoculture, molto accontentabile in fatto di acqua, che ha carni eccellenti, che vive benissimo in schiavitù, dovrebbe essere al centro degli interessi dei nostri tecnici e dei nostri riservisti. Tanto più in vista della cronica mancanza di selvaggina che le regioni meridionali lamentano e che non può essere alleviata con i fagiani e con i migratori.
A quanto mi risulta, però, nessun tentativo in questo senso si è fatto (come del resto nessun serio tentativo si è fatto nei confronti della pernice sarda e della coturnice di Withaker); e dire che in Spagna le galline prataiole sono abbondantissime e di cattura non difficile, dato che si alzano difficilmente in volo.
A questo punto giriamo la proposta ai tecnici del settore: si inizino subito gli studi per la riproduzione in cattività di tali interessanti animali, seguendo le tracce e l’insegnamento del professor Baldacci per i francolini; ci si impegni, una volta per tutte, a rivalutare le specie e le sottospecie autoctone, abbandonando le favole belle legate all’introduzione di specie esotiche, che già tali e tanti insuccessi hanno registrato.
In fondo la selezione l’ha già fatta il Padreterno in migliaia di anni; e mi sembrerebbe per lo meno presuntuoso il pretendere di far meglio rimescolando le specie e le razze come si è fatto finora.
Fulco Pratesi