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Siamo tutti consapevoli, oramai, di come la deforestazione ed i cambiamenti climatici stiano modificando profondamente gli ecosistemi. La produzione di merci sembra essere la principale causa alla base della deforestazione, ne sono esempi: piantagioni di soia, canna da zucchero, palme da olio, produzione di legname nonché allevamenti intensivi ecc. Per far fronte a questa richiesta, ogni anno vengono “divorate” enormi porzioni di foreste primarie ma la catena di effetti devastanti non si interrompe qui. Infatti, affinché le aree così trasformate divengano fruibili, è necessario creare una rete di strade con conseguenti nuovi insediamenti; si creano cioè i presupposti per la frammentazione di un habitat. In luogo di un habitat naturale, che ricopriva omogeneamente una vasta area, si formano dei “patch” di foresta separati da aree antropizzate. Le specie presenti nelle aree interessate possono rispondere a tali variazioni in diversi modi; alcune, le più fortunate, riescono a sopravvivere grazie alla loro capacità di spostamento altre, non trovando più le condizioni necessarie alla propria sopravvivenza, vanno incontro ad un lento declino che le può portare anche all’estinzione. Queste scelte ad elevato impatto “ecosistemico” comportano la creazione di una connessione alterata tra uomo ed animali e questo può incrementare la probabilità che si verifichino contatti con agenti patogeni, non obbligatoriamente pericolosi per l’uomo ma, che potrebbero fungere da presupposto per un “salto di specie” o spillover. Per capire bene di cosa si tratti, mi permetto di citare un passaggio tratto da un libro che, pur essendo uscito nel 2012, risulta ancora una lettura molto attuale “Spillover: l’evoluzione delle pandemie” di David Quammen, giornalista e reporter per il National Geographic. “Quando gli alberi cadono e gli animali nativi vengono massacrati, i germi che lì erano contenuti volano come polvere da un magazzino demolito. Li stiamo rimuovendo dai loro limiti ecologici naturali, luoghi in cui non erano molto abbondanti e subivano una feroce concorrenza, anche all’interno di un singolo animale. Li introduciamo invece in un nuovo ricco habitat chiamato popolazione umana, dove possono prosperare in gran numero”. Sulla terra non era mai esistito un animale così dominante come lo sono ora gli umani. La diretta conseguenza di queste dominanza ed abbondanza è l’aumento degli scambi virali, prima da animale ad umano, poi da umano ad umano e, con sempre maggiore frequenza, su scala pandemica. Restando attuali e parlando di Coronavirus mi sembra opportuno scrivere anche dei wet markets asiatici e, più nello specifico, della cultura dello Ye wei ovvero l’uso, diffuso in Cina, di mangiare “bushmeat” (carne di specie selvatiche che vengono cacciate, nelle foreste tropicali, per il consumo umano), “game meat” (selvaggina o qualsiasi animale cacciato per il cibo e la carne) e che include specialità esotiche. Questa, relativamente recente, tendenza alimentare non nasce in risposta ad una scarsità di risorse bensì come forma di ostentazione della “nuova” ricchezza nella crescente economia cinese. Mangiare animali esotici crea infatti il perfetto connubio tra lusso e prosperità, da una parte, e la stravaganza caratteristica di cure e preparazioni afrodisiache tipiche della cultura cinese, dall’altra. Nonostante, gli animali, arrivino ai mercati in buona salute, sono gli spazi angusti e le gabbie a rete a favorire i contatti, con altri animali possibilmente infetti, tramite deiezioni e fluidi. Spesso arrivano sia animali morti che vivi, che venendo però tenuti ammassati in banchi frequentati da tantissime persone accalcate, in condizioni igieniche spesso inesistenti, costituiscono una vera e propria bomba virologica. In seguito all’epidemia di SARS si era verificata una riduzione del commercio di animali esotici, in vendita nei mercati destinati ai ristoranti, ma la domanda di specie selvatiche non si era affatto attenuata. Era stata, più semplicemente, dirottata sui traffici illegali. Siamo di fronte all’ennesimo caso di zoonosi, ed il colpevole numero uno per la loro diffusione è un’altra specie animale: la nostra.

Ora più che mai, l’uomo deve divenire consapevole della necessità di cambiare il proprio approccio rispetto alle risorse naturali. Ciò che poteva andar bene fino a qualche decennio fa ora, a causa della pressione antropica senza precedenti, non è più accettabile. Occorre evidenziare come ciò che apparentemente viene fatto passare come un miglioramento delle condizioni di vita non sempre porti avanti un approccio corretto nei confronti dell’ecosistema. La deforestazione viene fatta passare come positiva per la qualità di vita delle popolazioni locali perché le foreste convertite in zone agricole vengono percepite come occasione di lavoro e di aumento delle risorse alimentari. Ma questo chimerico sviluppo economico non fa altro che ridimensionare la natura a misura d’uomo innescando uno sfruttamento eccessivo delle risorse che si traduce in una inevitabile degradazione dell’habitat sfociante in una dannosa esposizione a nuovi patogeni e a sempre più incontrollabili calamità naturali frutto dello stesso sfruttamento. Tutto questo conferma il fulcro di questo articolo; un rapporto sbilanciato tra uomo e natura comporta pesanti conseguenze.  La deforestazione si lega al consumo di bushmeat. Nelle aree tropicali gli stessi lavoratori, che si occupano del legname, si ritrovano a svolgere questo tipo di caccia; chi dovrebbe controllarli, di fatto, chiude un occhio considerando questa attività come un’integrazione ai salari troppo miseri. I cacciatori possono inoltrarsi nella foresta durante la loro attività venatoria; con il trasporto e la macellazione degli animali, è facile che entrino in contatto con materiale organico, come anche  il sangue, di animali potenzialmente infetti. In questo modo probabilmente è avvenuto lo spillover per l’AIDS.  Oggi infatti  sappiamo che questo virus deriva da una mutazione del SIV, il virus di immunodeficienza tipico delle scimmie.

Quindi quello che emerge non è la demonizzazione della caccia, come alcuni vorrebbero far passare, ma la deriva di un mondo che corre e che approccia ad ogni cosa in maniera vorace e senza contegno. Di fatto il prelievo sostenibile a carico della fauna selvatica, condotto secondo regole, resta una fonte di proteine nobili per le comunità locali di paesi in via di sviluppo, oltre a rappresentare una valida alternativa anche nell’occidente più civilizzato dove riesce a portare sui piatti proteine a scarsa emissione di CO2   e di qualità. Come singoli individui, probabilmente, pensiamo di poter fare ben poco ma adottare scelte indirizzate verso un uso gestibile della risorsa ecologica, includendo naturalmente una gestione venatoria atta a promuovere un prelievo sostenibile, potrebbe essere un passo fondamentale.

Manuela Lai


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About the author

Manuela Lai

Naturalista ed agrotecnico laureato.
Esperta di wildlife economy, filiera, uso sostenibile e valorizzazione delle carni di selvaggina. Influencer e blogger del wild food.

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