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Se c’è un paese dove l’esercizio dell’agricoltura non può permettersi di rinunziare nemmeno a quote marginali di redditi, è il nostro; e se c’è un paese dove gli agricoltori non possono permettersi di tollerare danni e sprechi è pure il nostro. Le imprese agricole infatti vivono col l’acqua alla gola: i costi sono alti, i ricavi sono bassi, la corsa alla competitività internazionale trova continui handicap. Eppure c’è un settore di attività nel quale l’agricoltura dovrebbe essere evidentemente protetta e invece è ridotta dalle nostre stesse leggi a semplice comparsa. Tutti avranno capito che tale attività è quella faunistico-venatoria. Molti ignorano – o meglio fingono di ignorare perché così fa comodo – che la fauna selvatica, oggetto dell’attività venatoria, vive, nidifica e si nutre sui terreni agricoli e forestali. In certi casi il costo dell’alimentazione della selvaggina non è molto appariscente (una sola lepre in un ettaro di medicaio o una sola nidiata di starne in un ettaro di cereali consumano una quantità di prodotto non facilmente ponderabile) ma ciò non significa che il costo non esista. In altri casi il costo può essere addirittura enorme (una covata di fagiani in un vigneto di uva da tavola o addirittura una famiglia di cinghiali in una macchia adiacente a campi di granturco o di bietole o di patate). E’ questo un innegabile aspetto degli stretti rapporti tra agricoltura e caccia. Ma ve ne sono altri, anche più importanti, che non possono essere ignorati. Spesso la selvaggina nidifica (o partorisce) nei terreni coltivati: i campi di cereali e di erba medica sono spesso scelti quali ambienti per le varie fasi del processo di riproduzione: e in questi campi circolano trattori, mietitrebbie, falciatrici e tante altre macchine alle quali l’agricoltore non può certo rinunciare.

Un altro importantissimo capitolo dei rapporti tra agricoltura e caccia è quello dei concimi, dei fitofarmaci, dei cosidetti pesticidi. L’agricoltura ne ha bisogno e bisogna rendersi conto che non si può rinunziare a produzioni essenziali per la vita dell’umanità, quali sono quelle a carattere alimentare. Ma l’uso delle sostanze chimiche incide a fondo sulla vita della fauna. Quando l’agricoltore sia interessato alla conservazione della fauna sarà anche spinto a considerare con maggior cura ed a valutare con maggior attenzione quali sostanze chimiche usare, in quale modo spargerle e potrà diventare un alleato dei cacciatori nelle iniziative di studio e di ricerca per identificare sistemi di lotta e di difesa della produzione agricola che non siano incompatibili con la sopravvivenza della fauna selvatica. Se per l’agricoltore la fauna deve essere solo considerata come fonte di danni e di fastidi, non si può far conto sulla sua alleanza nella soluzione dei problemi di inquinamento. E’ giusto quindi che gli agricoltori abbiano “voce in capitolo” in tema di caccia e che le leggi venatorie debbano essere necessariamente di ispirazione “agricola” (tanto più che la caccia, sotto il profilo amministrativo, fa capo al Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste). Invece ciò non è vero affatto e se c’è una legge che scarsamente si ispira agli interessi agricoli è quella venatoria. Così era per il Testo Unico del 1939 e così è anche dopo la legge 2 agosto 1967 n.799: anzi quest’ultima, per alcuni aspetti, ha peggiorato la situazione degli interessi agricoli. (ndr e la 157?)

Purtroppo, allo stato della nostra legislazione, l’agricoltore non ha alcun incentivo né alcun interesse ad usare gli accorgimenti per evitare che le macchine schiaccino le uova dei nidi o stritolino leprotti e talvolta anche animali adulti. Si può dire che l’agricoltore – se non ha una spiccata coscienza naturalistica – ha tutto l’interesse a distruggere i nidi e la selvaggina nei suoi terreni perche sa bene che quando si aprirà la caccia quella selvaggina attirerà plotoni di cacciatori che calpesteranno medica, ortaggi e cereali, entreranno nei vigneti e nei frutteti e magari spareranno alle faraone domestiche o impallineranno le finestre di casa. Si dirà che ciò è proibito: ma l’agricoltore sa bene che quasi sempre la proibizione rimane platonica perché nessuno è in grado di farla osservare.

Questo stato di cose non giova né alla conservazione della fauna, né all’esercizio della caccia, né all’agricoltura ed è frutto di una impostazione errata della nostra legislazione in materia. Per valutare quanto la situazione degli agricoltori italiani sia ignorata nel campo della caccia non è necessario fare il confronto con altri paesi del MEC (dove addirittura la selvaggina appartiene al proprietario del fondo, il quale pertanto dispone – in sostanza – del diritto di caccia), ma basta considerare alcune disposizioni vigenti. Il legislatore ha ritenuto di concedere sufficiente difesa all’agricoltura attraverso l’art. 30 del Testo Unico, modificato poi all’art. 9 della citata legge del 1967. Tale articolo stabilisce, come è noto, che son vietate a chiunque (e quindi anche al proprietario) la caccia e la uccellagione nei terreni in attualità di coltivazione ed elenca quali sono i terreni da considerare preclusi alla caccia. Ma perché il divieto abbia effettiva efficacia è necessario che il proprietario circondi i terreni con apposite tabelle e le rimuova non appena cessi la coltivazione in atto, creando così problemi e fastidi, senza ottenere talvolta lo scopo, perché occorrerebbe una guardia fissa per ogni campicello e anche ciò creerebbe litigi e diatribe. Per il resto il legislatore ha quasi del tutto ignorato i proprietari ed i coltivatori. Guardiamo , ad esempio, le zone di ripopolamento, dove non si esercita la caccia e perciò la selvaggina può moltiplicarsi al punto da arrecare danno ai prodotti. L’art. 18 della legge del 1967, mentre per le riserve richiede l’esplicito consenso (anzi la diretta iniziativa) del proprietario o possessore dei terreni, per le zone di ripopolamento non chiede ai proprietari o possessori alcun consenso esplicito; basta che essi non facciano opposizione i sede di pubblicazione del progetto (pubblicazione che il più delle volte non verrà a conoscenza degli interessati): e anche nel caso di opposizione, basta che i non opponenti siano i due terzi. Vi sono poi leggi regionali dove gli agricoltori sono ancora più ignorati. Praticamente succede spesso che i proprietari si accorgono che i loro terreni sono inclusi in una zona di ripopolamento senza avere avuto nessun preavviso.

L’art. 8 della predetta legge regola i “fondi chiusi” e sancisce il divieto di caccia nei fondi stessi oltre che per gli estranei, anche per i proprietari. Aggiunge poi, con formula nebulosa, che in detti fondi, su richiesta dei proprietari “sono effettuate da parte del Comitato Provinciale della Caccia catture di selvaggina per la protezione delle colture”: ma non dice a chi appartenga la selvaggina catturata. Questo strano divieto fatto al proprietario non riguarda casi particolari, nei quali forse potrebbe avere una certa giustificazione come, ad esempio, quando il fondo chiuso è adiacente a una riserva e per ciò sfrutta la selvaggina proveniente dalla riserva stessa: ma riguarda tutti i fondi chiusi indistintamente, per cui, mentre – come si è accennato – in altri paesi il proprietario ha sempre una certa precedenza (e molte volte anzi l’esclusività) nel diritto di cacciare la selvaggina che vive sulle sue terre e si alimenta con i prodotti delle medesime, in Italia gli si proibisce addirittura di esercitare la caccia sui suoi fondi e si affida ad altri la cattura degli animali, senza nemmeno prevedere un corrispettivo. Non è certo questo un modo di incoraggiare l’incremento della fauna. Se il proprietario di un fondo chiuso potesse costituirvi un allevamento e vendere la selvaggina viva da destinare al ripopolamento, forse non saremmo costretti a importare tante migliaia di lepri dall’estero. Ci sembra che da questo complesso di osservazioni e citazioni di deduca chiaramente che i rapporti tra agricoltura e caccia debbono essere chiariti nel senso che i legittimi interessi agricoli siano meglio tutelati. E’ in corso in Senato lo studio di una legge – quadro e ci sembra che questa sia la sede opportuna per regolare una così complessa e importante materia, in modo che le Regioni abbiano una chiara indicazione per le leggi di competenza regionale. Ci si permetta un ultimo accenno, che non vuole essere…Cicero pro domo sua. Nelle riserve di caccia i rapporti tra proprietà agricola e caccia sono automaticamente e pacificamente risolti. L’iniziativa per fare una riserva spetta ai proprietari o possessori di terreni, per cui nessuno può fare una riserva contro la loro volontà (è prevista l’inclusione coattiva per imprescindibili motivi tecnici solo per superfici di entità trascurabile). Quando non si tratta di un unico possessore, ma di un consorzio, i rapporti tra agricoltura e caccia vengono consensualmente regolati nell’atto costitutivo del consorzio e nel regolamento di caccia. I proprietari e possessori che intendano rinunziare totalmente o parzialmente, conferendo a terzi il diritto di cacciare possono trarre da ciò un giusto reddito. Tutto così è semplificato e tutto viene a inquadrarsi in un ordinamento equitativo, con vantaggio per la conservazione dell’ambiente, per l’incremento della fauna e per un moderato e programmato esercizio della caccia. Ma le soluzioni più semplici ed ovvie non vengono prese in considerazione se non presentano attrattive spettacolari e demagogiche. Se non si avrà il coraggio di volgersi verso soluzioni più ragionevoli, prepariamoci a vedere la caccia ridotta al lumicino.

Tratto da La Riserva di Caccia n° 2  Novembre/Dicembre 1975 : 2-4
Carlo De Angeli.

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Redazione RM

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