La caccia allo sfinimento è una tipica forma di caccia all’inseguimento, anche in ambienti caldi, in cui il cacciatore corre o usa una combinazione di caccia/corsa per portare, allo sfinimento, le prede designate. Questo tipo di attività potrebbe essere stata una strategia chiave per l’acquisizione di carne nell’evoluzione umana. Non è da sottovalutare, tuttavia, l’evidente nesso tra una prolungata locomozione, in presenza di alte temperature, e la conseguente, significativa, perdita di acqua a causa della sudorazione. Per questo motivo, la disidratazione viene considerata un fattore critico limitante capace, prima dell’invenzione dei contenitori per l’acqua, di ridurre notevolmente l’efficacia di questo tipo di caccia. Lo studio (qui), oggetto di questo articolo, ha come scopo quello di determinare fino a che punto la disidratazione limitasse la caccia in Homo erectus. Nello specifico, sono state simulate cacciate per sfinimento nelle condizioni semi-aride del Kalahari sudafricano. Le simulazioni, mantenendo le condizioni ambientali e le caratteristiche spazio-temporali, si sono basate su nove cacce per sfinimento al kudu svolte per un precedente lavoro scientifico. Per stimare la perdita d’acqua, in Homo erectus ed in un cacciatore attuale del Kalahari, è stato adottato un efficace modello di scambio termico, recentemente sviluppato. Una perdita d’acqua pari al 10% della massa corporea del cacciatore viene considerata come limite fisiologico caratterizzante un’azione di caccia svolta senza reintegro di liquidi. Il criterio adoperato per escludere un ruolo limitante, per la caccia, da parte della disidratazione è dato dalla capacità di cacciare per almeno 5 ore senza bere (poiché questa era la durata che rendeva ben eseguita una cacciata, di grandi prede, con la tecnica dello sfinimento). I risultati hanno dimostrato che H. erectus avrebbe raggiunto il limite di disidratazione in 5,5 – 5,7 ore di caccia nelle condizioni presenti allora nel Kalahari. I risultati dello studio portano alla conclusione che H. erectus avrebbe potuto condurre un’azione di caccia, alla ricerca di grandi prede, senza la necessità di trasportare acqua. Il fatto che questo tipo di caccia non richieda armi sofisticate come lance con punte litiche, atlatl (propulsore) o arco e freccia – che compaiono relativamente di recente nei reperti fossili – ha suggerito che questa rappresentasse un supporto chiave per la sopravvivenza del genere Homo nel Primo Pleistocene. L’ Homo erectus , apparso in Africa circa 1,8 Ma è stato il primo cacciatore ad usare la tecnica della caccia per sfinimento ed era caratterizzato da dimensioni e proporzioni del corpo che potremmo definire moderne. Questa tecnica venatoria potrebbe aver innescato la comparsa o promosso lo sviluppo di diverse caratteristiche spesso utilizzate per definire il genere Homo.
Stiamo parlando, ad esempio, di produzione ed utilizzo di utensili (per la macellazione), encefalizzazione (localizzazione), elevata capacità di sudorazione e perdita di pelo (dissipazione del calore), tratti morfologici che promuovono la resistenza e l’ “economia locomotoria” (tendine di Achille lungo, arco plantare, arto inferiore lungo), locomozione prolungata (articolazioni robuste dell’arto inferiore), discorso (comunicazione precisa tra cacciatori) e cooperazione sociale (tracciamento in gruppo, condivisione della carne).
Questo studio contribuisce, in qualche modo, a ribadire il ruolo centrale della caccia nell’evoluzione dell’uomo. Le radici della “pianta venatoria” affondano quindi lontane nel tempo ed ancora oggi i seguaci di Diana si nutrono dei suoi frutti. Certo, di acqua sotto i ponti ne è passata, ed oggi il mondo chiama i cacciatori ad una nuova sfida che li vede impegnati a dimostrare preparazione e competenza per confermare che questa antica storia può essere futuro.
Manuela Lai