Tratto da La Riserva di Caccia n° 6 Novembre/Dicembre 1974 : 8-10
Non c’è animale che, più del cinghiale, impersonifichi per noi europei l’idea della caccia. Le ceramiche greche, gli affreschi etruschi un bassorilievo sull’arco di Costantino, le miniature medievali e le tele del Rinascimento che parlano di caccia hanno spesso per protagonista questo poderoso suide. Il posto occupato nella cultura asiatica e medio orientale dal leone (e ricordiamo i bassorilievi assiri con le famose cacce di Assur ) e in quelle nordamericane dal bisonte è, nell’iconografia venatoria europea, saldamente tenuto dal cinghiale. Dal Cinghiale Calidonio ucciso da Meleagro al Cinghiale di Erimanto la cui uccisione costituisce la terza delle dodici fatiche di Ercole, l’irsuto pachiderma ha sempre rappresentato la preda più ambita e la pietra di paragone per colui che voglia misurare il suo ardire e la sua forza ( ne abbiamo parlato anche qui). E, malgrado molte esagerazioni siano state scritte sul suo conto ( come il proverbio polacco che recita “ se vai a caccia di orsi preparati la barella, se di cinghiali preparati la bara”), fino all’invenzione delle armi da fuoco il combattere all’arma bianca con un “solengo” il cui peso superi i 200 chilogrammi (alcuni esemplari raggiungono i 320) e le cui “difese” siano in proporzione non deve essere mai stato un gioco da ragazzi. Come testimoniano del resto le leggende che parlano di personaggi mitologici ed eroi fatti fuori nel corso di cacce al cinghiale, da Adone amante di Venere ad Anceo, Re dei Lelegi a Samo. Un tipo poco raccomandabile da tenere vicino ai coltivi ed ai villaggi tanto che, da sempre, si è cercato di estirparlo. Operazione che dall’invenzione delle armi da fuoco in poi ha ottenuto il risultato di ridurre il suo areale, una volta praticamente esteso in tutta Europa, a limitate zone boschive. Malgrado infatti l’alta prolificità della specie ( una femmina può partorire fino a 16 piccoli per volta) e all’estrema adattabilità – ( il suo habitat va dalle macchie costiere alle faggete di montagna e dalle paludi ai boschi di conifera e la sua alimentazione comprende un po’ tutto : tuberi, ghiande, insetti, rane, serpi, uova, lumache, bacche, vegetali ) – il cinghiale riesce ad aumentare le sue popolazioni solo quando diminuisce la pressione venatoria: come ad esempio in occasione di guerre: in quella del 14-19 si assiste’ ad un notevole aumento di cinghiali in Francia, fino in zona d’operazioni, grazie al fatto che i fucili erano “in altre faccende affaccendati”. Tanto che una credenza popolare in Alsazia ( regione ove le guerre sono state spesso di case ) vuole che l’aumento dei cinghiali preannunci lo scoppio di una guerra. In Italia, malgrado le distruzioni trascorse, possiamo dire che, per il cinghiale, il peggio è passato. Dopo un declino pauroso fino a 10-20 anni fa, a causa delle estese ed indiscriminate “bonifiche” tra le due guerre – che hanno, ad esempio, distrutto quello splendido habitat per cinghiali che erano le paludi pontine ( “vi erano isole tutte ricoperte da una macchia tipo giungla, che circondava foreste vergini lussureggianti di decidue con alcuni alberi giganteschi riparo per cinghiali”, come scrive Curry- Lindhil ), della demagogica “Battaglia del grano” responsabile dell’abbattimento di grandi foreste, della caccia poco controllata e del fiorente bracconaggio, il nostro suide mostra finalmente segni di ripresa: un po’ per l’azione irradiatrice delle riserve di caccia (specialmente nelle Maremme toscana e laziale), un po’ per i ripopolamenti effettuati in molte Bandite Demaniali ( in Molise e in Calabria ), un po’ per le immigrazioni di individui e di branchi dalla Francia nel savonese e dalla Jugoslavia nel Friuli, un po’ per il progressivo abbandono delle montagne e delle zone boscose, il cinghiale non può più, almeno nel nostro paese, essere considerato un animale in via di estinzione. Oggi, stando alle varie ricerche effettuate sulla specie, il cinghiale è presente in Italia nei seguenti areali: foreste e campi abbandonati delle provincie di Cuneo, Imperia e Savona (derivanti da esemplari provenienti dalla Francia), foreste del Friuli orientale e della Carnia (provenienti dalla Slovenia); Appennino Parmense, Maremma Toscana e Laziale (da Migliarino fino a Cerveteri, e a sud del Tevere, Castel Porziano e Parco Nazionale del Circeo, di cui il cinghiale è il simbolo), Alto Molise ed Abruzzo Meridionale. Gli esemplari di queste due ultime zone, che giungono a nord fino alla Majella (come hanno potuto constatare degli scienziati del WWF che trovavano i loro carnai destinati ai lupi saccheggiati dal vorace suide) e, con sporadiche segnalazioni, fino al Parco d’Abruzzo, derivano da un nucleo di riproduttori provenienti dal Circeo liberati nel secondo dopoguerra nella splendida cerreta della bandita demaniale di Montedimezzo in Molise. Più a sud la presenza del cinghiale si fa molto più sporadica e sparsa: cinghiali sono segnalati per il massiccio del Pollino (versante lucano), per i monti di Orsomarso e Verbicaro, per la Sila. Diffuso (e in qualche zona abbondante) in Sardegna, con una sottospecie probabilmente diversa, data la scarsa mole degli individui. Uno dei problemi più gravi, e che discende dallo stesso progresso nella tecnica venatoria che ha praticamente salvato il cinghiale, è quello derivante dai cosiddetti “rinsanguamenti” e dai ripopolamenti. Dato che tutti i boschi della penisola e delle isole erano un tempo abitati da cinghiali, non costituisce un errore ecologico volerli riportare ovunque le condizioni dell’ambiente lo permettano. Il guaio succede quando, per superficialità o per deleterio empirismo, si immettono esemplari provenienti da altri territori. Si hanno notizie, ad esempio, di cinghiali israeliani (adatti ai canneti palustri e ripariali) o polacchi e ungheresi (adattati da millenni nelle foreste di conifere) liberati nelle nostre macchie mediterranee costiere o nei boschi di collina. Non so ancora (Dio non voglia) di cinghiali continentali liberati in Sardegna, ma potrei giurare che qualcuno, se non l’ha fatto, ci sta pensando. Con queste operazioni cervellotiche si ottiene l’enorme svantaggio di alterare ed ibridare popolazioni autoctone splendidamente adattate a quell’ambiente, a quella vegetazione, a quel clima, a quella alimentazione, diminuendo le difese genetiche della specie e dei coltivi del tutto imprevedibili. Contro l’illusorio miraggio di avere esemplari più grandi (ma quanto più deboli!) o trofei più imponenti (ma inadatti all’ambiente) si distrugge il sapiente e perfetto lavorio compiuto dalla selezione naturale in migliaia di generazioni. E così il nobile cinghiale maremmano, imbastardito da “mésalliances” con affusolati cinghiali israeliani o con pletorici esemplari dell’Europa orientale o, peggio, con porcelli allo stato brado, perde le sue caratteristiche e la sua individualità, diventando un bel porcellone setoloso buono tuttalpiù per i recinti e gli allevamenti intensivi a granturco e mangimi bilanciati, ma non certo per occupare, di diritto, la nicchia ecologica che gli compete.
Archivio La riserva di Caccia anno 1974 autore Fulco Pratesi