La presentazione della rivista “La riserva di caccia” è stata l’occasione per venire a conoscenza delle vetuste origini di questa gloriosa testata: di qui l’idea di descrivere i rapporti che nel secondo dopoguerra intercorrevano tra Ente Produttori Selvaggina, allora editore in prima persona della rivista, Federazione Italiana della Caccia, all’epoca unica Associazione venatoria, e Comitati Provinciali della Caccia, organismi pubblici preposti, al tempo, al governo faunistico e venatorio del territorio.
In quegli anni lontani il quadro normativo che disciplinava la gestione faunistica e l’attività venatoria era ancora contenuto, e lo rimase fino all’adozione della legge n.968 nel 1977, nel Regio Decreto n.1016 del 1939, noto come Testo unico delle norme per la protezione della selvaggina e l’esercizio della caccia. Tale normativa, così come del ai nostri giorni la legge n.157 del 1992, consentiva la caccia all’interno delle Riserve private di caccia esclusivamente al Concessionario, ai suoi familiari e a cacciatori ospiti accompagnati o muniti di permesso scritto rilasciato dal Concessionario medesimo. La normativa stabiliva altresì i limiti di estensione delle Riserve: non inferiori a 150 ettari e non superiori a 2.000, fatte salve situazioni di grande valore faunistico e quelle ricadenti in zona Alpi. Prescriveva inoltre il rispetto di una distanza minima di 500 metri tra Riserve diverse e tra queste e le Zone di ripopolamento e cattura. Infine, l’estensione massima complessiva delle Riserve e delle Bandite, cioè dei divieti privati di caccia, non poteva essere superiore ad un quinto del territorio destinato all’attività venatoria di ciascuna provincia.
Competente per il rilascio, il rinnovo e l’eventuale revoca delle concessioni era il Ministero dell’Agricoltura e Foreste, mentre le istruttorie tecniche relative a tali atti erano demandate al Comitato Provinciale della Caccia. Tale organismo era composto dal Capo dell’Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura, in qualità di Presidente; dal Presidente provinciale della Federazione Italiana della Caccia, in qualità di Vicepresidente; da uno Zoologo; da quattro soci della FIdC, di cui uno concessionario di una Riserva di caccia in rappresentanza dell’Ente Produttori Selvaggina; da un rappresentante dei piccoli agricoltori e da uno dei lavoratori agricoli.
Il rappresentante dell’Ente Produttori Selvaggina intratteneva rapporti di grande collaborazione con gli altri membri della Federazione Italiana della Caccia, ovvero i rappresentanti dei cosiddetti liberi cacciatori, come allora venivano denominati i cacciatori comuni.
Le Riserve, infatti, venivano ritenute da tutti i cacciatori senza distinzione come un elemento di rilevante importanza ai fini di un’ottimale presenza sul territorio della cosiddetta selvaggina nobile stanziale, così allora venivano denominate prede come lepre, starna, fagiano, pernice rossa e coturnice.
Il rappresentante dell’Ente Produttori Selvaggina era di conseguenza molto orgoglioso di tutto ciò che le Riserve rappresentavano e anche molto esigente nei confronti dell’operato dei suoi colleghi concessionari. Fino al punto da non esitare a schierarsi senza alcuna remora a favore delle revoca di una Riserva nel caso di una sua negligente conduzione. L’incapacità o l’incompetenza non avevano diritto di cittadinanza. Ma, per opposti motivi, le Riserve più ricche di selvaggina e meglio gestite venivano premiate ogni anno con tangibili riconoscimenti in denaro. D’altra parte, l’impegno profuso dai Concessionari e i risultati faunistici da loro conseguiti venivano valutati sulla base di parametri condivisi ed estremamente concreti: l’effettivo impiego dei guardiacaccia nella vigilanza antibracconaggio e nel contenimento dei cosiddetti animali nocivi, così venivano all’epoca definiti i predatori come volpi, corvidi, lupo, faina, puzzola, lontra, martora, donnola, gatto selvatico, rapaci diurni e notturni, cinghiale, istrice e qualsiasi gatto domestico che avesse la sventurata idea di spingersi a più di 300 metri dalla propria casa.