Tra le forme più diffuse e consolidate per la caccia al cinghiale la braccata balza, più o meno a intervalli regolari, agli onori della cronaca. E’ ovviamente palese ed innegabile che sia una forma di caccia che presenta alcuni limiti, più o meno accettabili e/o condivisibili. In primis non è selettiva, se mal gestita può addirittura dimostrarsi pericolosa e di sicuro può arrecare disturbo a diversa fauna selvatica “non target” financo al predatore per eccellenza, sua maestà il lupo.
Ma si può quantificare questo disturbo?
Chiunque abbia partecipato a braccate si è sicuramente accorto che tra le specie “non target” molte, pur “alzandosi” sotto la canizza, si ripresentano “ogni maledetta domenica” a distogliere l’attenzione degli ausiliari. Certo si sa, i caprioli o i mufloni non sono lupi! E sicuramente, almeno per il capriolo, le conseguenze da stress possono essere anche letali. Eppure le notizie corrono veloci, lungo lo stivale non mancano casi di cani predati dal lupo, proprio durante le braccate e non è da escludersi che per il predatore le zone di battuta possano addirittura rappresentare un’opportunità di accesso facile alle prede: ferimenti, mancati recuperi ecc. ecc.
Ma esiste un’attività umana che non arrechi disturbo alla fauna selvatica o che comunque non generi un qualche tipo di impatto?
Ovviamente ogni nostro comportamento, per quanto virtuoso, genera un impatto. Occorre solo esaminare se tale impatto sia o meno tollerabile, quali danni provoca, se è eventualmente contenibile e valutare il tutto anche dal punto di vista del bilancio costi/benefici.
Questa caccia affonda le radici lontano nel tempo, quante e quali specie si sono estinte per colpa della braccata? Non so rispondere ma forse una specie si è salvata anche per merito di quest’ultima .
Il cinghiale e gli ungulati in genere, hanno recuperato popolazioni e terreno in gran parte del territorio nazionale per svariate cause: recupero dei boschi, abbandono delle campagne, aree protette, ripopolamenti, reintroduzioni ecc. ecc. E , almeno per il cinghiale, le “colpe” o i “meriti” di questo recupero sono imputabili anche ai cacciatori. Contando che in molte zone d’Italia il cinghiale rappresenta fino all’80% della dieta del lupo, forse nel recupero del predatore c’è anche lo zampino del suo “peggior nemico”: il cacciatore.
Quindi la braccata non è il “migliore dei modi possibili” per cacciare il cinghiale. Oggi ci sono alternative più o meno valide: la selezione, la girata e persino la caccia con il cane da ferma. E’ difficile però pensare che queste forme di caccia possano soppiantare la braccata, culturalmente e tradizionalmente presente e profondamente radicata in molti contesti nazionali. Sicuramente si può lavorare per migliorare il migliorabile e, soprattutto, continuare ad educare i cacciatori a comportamenti virtuosi investendo in formazione. D’altro canto, se la fauna può tollerare nell’arco di un anno il disturbo arrecatole da parte di sciatori ed escursionisti vocianti, da moto da cross e quad scorrazzanti, non vedo perché tale disturbo debba essere riconducibile ed imputabile solo ed in maniera esclusiva ai 3 mesi di braccate.
G. Milana